Trapianto di midollo osseo: pensieri
“Si può guarire. Nello scenario migliore, solo con le chemio. Oppure, con il trapianto. E speriamo che non ne abbia bisogno. In ogni caso, c’è il rischio che la malattia ritorni” disse la dottoressa G. nella mia stanza, alla presenza dei miei e di H. Ci aveva fatti riunire per comunicarci la diagnosi dopo cinque giorni di ricovero. Ho vissuto su quel “speriamo che non ne abbia bisogno” per tre mesi. Poi le mie illusioni sono state fatte a pezzi.
Trapianto. È una parola che ti fa subito pensare a un’operazione lunga e difficile. Io l’associo per prima al trapianto di cuore, in cui per forza ci vuole un morto. Finché non mi sono trovata in quella stanza di ospedale a T. non sapevo che esistesse anche il trapianto di midollo osseo, figuriamoci come si svolge.
Trapianto è una parola che spaventa. Giustamente. Quando si tratta di quello di midollo, i dottori evitano di parlarne, come se altrimenti una sciagura potesse avventarsi su di loro. Non fare domande sul trapianto a meno che a) ti abbiano confermato che lo dovrai fare b) tu sia in presenza di un trapiantologo. Pure gli infermieri cercano di glissare. È una specie di argomento tabù nel reparto di ematologia, perché nell’ottica dei medici devi affrontare il percorso un passo alla volta e preoccuparti solo della fase in cui ti trovi. Solo che non funziona con le persone che vogliono sapere tutto come me.
In tutta onestà, una volta un ematologo ha risposto ad alcune delle mie domande sul trapianto, finché ha detto “A questo non so risponderle perché rischierei di darle delle informazioni incorrette, deve chiedere ai trapiantologi.” Ed è una risposta che ho accettato.
Paura di cosa?
Per cominciare, di non trovare un donatore compatibile in tempi ragionevoli. Io sono stata fortunata ad averlo in famiglia.
Poi tutto il resto. Il trapianto di midollo osseo, oggi, nella stragrande maggioranza dei casi si effettua come una trasfusione, solo con le cellule staminali emopoietiche del donatore prescelto. Non è dolorosa, né dura tanto. Insomma, all’atto pratico è semplice. Il problema è tutto il resto.
Due settimane prima di essere ricoverata per il trapianto che non ho fatto a ottobre, sono stata convocata per un colloquio con una dei trapiantologi dell’équipe del mio ospedale di riferimento. Per prima cosa, ha messo in chiaro che il trapianto era l’unica opzione terapeutica per me, ma che è un intervento pesante e non privo di rischi, immediati e di lungo periodo.
Per fare un trapianto di midollo, bisogna prima eliminare completamente quello esistente, e con lui se ne va anche tutto il tuo sistema immunitario. Quindi si usano farmaci chemioterapici che non risparmiano nulla. E si usa anche un farmaco che sopprime il sistema immunitario in preparazione dell’infusione delle cellule staminali nuove. Finita la chemio, si aspetta un giorno e si effettua l’infusione, sotto controllo del trapiantologo e dell’infermiere.
Poi viene la fase difficile: l’attesa. Le problematiche principali che possono presentarsi sono due: le infezioni, che possono essere fatali, oppure il “Graft vs Host Disease” (GvHD), ossia l’attacco delle cellule ospiti al corpo. Nonostante la compatibilità sulla carta tra donatore e ricevente, può essere che, formandosi, il nuovo sistema immunitario riconosca il corpo come un nemico da attaccare. E il GvHD si può presentare in diverse forme, anche queste a volte letali. Passati cento giorni dal trapianto, si considera passato il rischio di forme acute di GvHD, mentre si inizia a stare attenti alle forme croniche.
Dopo quaranta, quarantacinque giorni di ospedalizzazione in isolamento totale in una stanza (niente visite, no), se tutto va bene si viene dimessi.
Non dimentichiamoci che, ammesso e concesso anche di schivare le infezioni e le varie forme di GvHD, i chemioterapici sono tossici e la tossicità si accumula nel corpo. Possono insorgere problemi nel corpo a distanza di anni.
Ultimo ma non ultimo, il trapianto non è una garanzia di guarigione. È l’opzione migliore in alcuni casi per avere una speranza di guarigione.
Ecco, sicuramente dover evitare il lattosio per sei mesi forse è ciò che può spaventare meno.
Com’è andata per me
Con tutte queste informazioni rassicuranti e la parola “fatale” che mi rimbalzava nella testa ogni cinque minuti, sono entrata nell’ospedale di P. a ottobre convinta a metà che non avrei più rivisto i miei. Ero quasi sollevata quando mi hanno dimessa due giorni dopo. Non ero psicologicamente pronta, anche se adesso sarebbe stata tutta un’altra storia.
La seconda volta che sono entrata per il trapianto non ero meno spaventata, ma ero più rassegnata al mio destino. Nel periodo trascorso dalla prima volta, avevo avuto modo di maturare alcuni pensieri e capire come gestire meglio la paura dell’ignoto. E, comunque, il mio non è stato un trapianto classico, perché nel mio midollo c’erano ancora cellule leucemiche che se la spassavano. Ho dovuto fare un ciclo di chemio per fare fuori quelle e un altro, quello “tipico”, per terminare il lavoro. Non c’è dubbio che la mia leucemia abbia meno paura delle chemio di me, visto che poi è ritornata lo stesso.
E tutti i rischi annessi e connessi a questo benedetto trapianto? Be’, un’infezione me la sono beccata mentre facevo la chemio (ciao, aplasia). Quasi alla fine del secondo ciclo, ho avuto una sepsi. Un’esperienza da evitare. Dopo il trapianto, ho passato giorni in cui non solo non avevo voglia di mangiare, ma passavo le giornate a vomitare il nulla, con gli antinausea in flebo che mi facevano il solletico. Controllata l’infezione e passata la nausea, il resto è stato un periodo di stanchezza e noia, perdendo la pelle che non smetteva di esfoliarsi.
Secondo trapianto
Adesso ci sarebbe in programma un secondo trapianto, tra poche settimane. Dico “ci sarebbe” perché ci sarebbe anche da controllare prima che nel frattempo non si sia verificato un ritorno di malattia nel mio midollo (è un terrore con cui devo ancora imparare a convivere da ottobre scorso).
Se i medici hanno valutato che questa è ancora l’unica opzione percorribile (quando avevamo scoperto la recidiva, si era parlato di fare altro) e ritengono che io possa tollerarlo, bene. Io ho il triplo della paura che avevo sei mesi fa, dopo l’esperienza del trapianto e l’ultimo ricovero iniziato a febbraio. Loro hanno fatto e stanno facendo di tutto per salvarmi, mentre io mi chiedo quale sarà il prezzo da pagare. O forse non ha senso porsi questa questione, forse neanche l’incompatibilità basterà a eliminare eventuali cellule malate di ritorno. Forse, forse, forse. E se, e se, e se. Intanto, cerco di arrivare a quella data in condizioni discrete, che al momento non è scontato, ovvero io non posso fare niente, ma spero che le mie complicazioni terminino al più presto.
Certo è che, a prescindere dal mio caso nello specifico, un trapianto di midollo va oltre il giorno dell’infusione delle cellule staminali emopoietiche. Dopo vivi stando all’erta, sviluppi manie di pulizia a livelli che non ti aspetti, devi stare attento a cosa mangi e come viene preparato, hai paura che ogni piccolo sintomo si possa trasformare in un problema gigante. Un altro paziente che, purtroppo, come me ha avuto una recidiva post-trapianto mi ha detto di non aver mai considerato questa possibilità prima che succedesse. A volte si sta meglio senza sapere.