La mia vita si è fermata il 1° giugno 2023
Le malattie gravi capitano sempre agli altri. O forse no.
Era maggio. Un maggio iniziato con freddo e pioggia, trascinandosi dietro quello che aprile non ci aveva dato. Avevo ospitato una coppia di amici a casa mia con l’occasione del ponte del Primo maggio. Erano stati giorni intensi, in cui siamo sempre stati fuori casa; un’eccezione pesante per me, che lavoravo da casa ed ero poco abituata a uscire per molto tempo. E poi, essere sociali tutto il giorno stanca le persone introverse come me. Due, tre ore di socializzazione vanno bene; di più, sono una tortura da KGB. Risciacqua e ripeti per tre giorni, ti lascio immaginare.
Quando gli amici sono andati via, avevo bisogno di una vacanza dalla vacanza. Ero stremata e quei giorni frizzantini mi avevano provocato una tonsillite. Scema io che da anni mi ostino a non usare più la pashnina in primavera, con i suoi venticelli subdoli. Avevo questo dolore alla gola e, a detta di H., c’era una piccola placca bianca su una delle due tonsille. Ho deciso di aspettare per contattare il dottore, perché sembrava si stesse risolvendo da sole. In effetti, dopo qualche giorno le placche erano sparite, ma le tonsille non davano segni di miglioramento.
Passò una settimana e mi ritrovai a lavorare incessantemente su un progetto che stavo rimandando da quasi un mese e la scadenza che avevo promesso al cliente si stava avvicinando. Doveva essere finito quanto prima a tutti i costi, quindi lavoravo anche dieci ore al giorno, anche nel weekend, finché riuscii a finirlo. In ritardo di qualche giorno, ovviamente. Il giorno dopo notai uno strano rigonfiamento sul collo. Le tonsille erano di nuovo grosse, ma senza dolori o placche. Cosa ti dice l’istinto in quei momenti? Di chiamare il dottore? No, cerca su Google perché i linfonodi del collo si ingrossano. In inglese, in italiano, i risultati dicevano che può capitare che, con le tonsille infiammate, i linfonodi si ingrossino, ma normalmente rientrano da soli nel giro di qualche giorno. Va bene, aspettiamo, tanto non sembra esserci niente di allarmante.
Passò un’altra settimana e i linfonodi erano diventati più d’uno e avevo anche un po’ di febbricola. Mi dedisi a chiamare il dottore, che per telefono mi disse di prendere dell’ibuprofene e del cortisone per sgonfiare le tonsille e, casomai, di risentirci entro qualche giorno. Sembrò funzionare, per un paio di giorni.
Andai a L. per lavoro nel weekend e, di nuovo, mi sentivo spossata, avevo mal di testa e due palline da golf sotto la mandibola. Diedi la colpa al ritmo frenetico dell’evento, al cambio di abitudini, ma tenevo duro, sorridevo, chiacchieravo, non mi lamentavo. Al ritorno, ricontattai il dottore e, finalmente, mi diede un appuntamento. Quel giorno avevo avuto un po’ di febbre, ma avevo camminato lo stesso per più di mezz’ora fino allo studio (visto che l’autobus, come sempre quando hai un appuntamento, non passava più).
Avevo dei bambini o ero stata a contatto con bambini? Certo che no, non ho figli, lavoro da casa, non ho la famiglia qui (non che abbia parenti con dei figli, comunque), al massimo ho due amiche che fanno le babysitter. Sospetta diagnosi: mononucleosi. E com’è possibile che me la sia presa? Mistero. Facciamo delle analisi del sangue per esserne sicuri, decise il dottore.
Chiamai l’ASL di T. per prenotare le analisi. Non c’erano appuntamenti fino a due settimane e mezzo dopo. Già è abbastanza assurdo dover prenotare una prestazione banale come delle analisi del sangue nel pubblico, figuriamoci aspettare ancora per capire la causa del mio malessere. Cercai allora dei laboratori privati abbastanza vicini a casa che effettuassero anche le prescrizioni specifiche per il virus che mi aveva dato il dottore. Siccome quando si tratta di procrastinare, io sono una campionessa, ovviamente le chiamate le feci alle sei del pomeriggio, quando praticamente non ti risponde più nessuno. Un laboratorio mi rispose promettendomi di mandarmi un preventivo il giorno dopo. “Preventivo” parlando di analisi era già una parola abbastanza spaventosa, ma ci sono momenti in cui non devi guardare in faccia i soldi.
Quella sera, in bagno, dopo essermi lavata i denti, subito prima di andare a letto, in vestaglia nera, mi guardai allo specchio e tastai tutte quelle protuberanze che avevo sul collo e dietro l’orecchio sinistro. Cercai di tranquillizzarmi, dicendomi che non era niente, che sarebbe passato. Avevo il viso stanco e un po’ gonfio. Era da settimane che quasi non cucinavo più io, sia perché mi trattenevo a lavorare fino al limite dell’usuale ora di cena, sia perché mi era venuto meno lo stimolo di mangiare e, di conseguenza, anche la voglia di preparare o pensare al cibo. Una frasetta letta nelle pagine risultanti nelle mie ricerche su Google mi ronzò in testa:
Non è però da escludere che [i linfonodi ingrossati] possano essere la conseguenza di una malattia autoimmune o, più raramente, di un tumore.
“E se avessi un tumore?” Che tumore, poi? No, ma perché pensi sempre al peggio? Sarà un virus che non si sa come hai preso, tutto si risolverà. Eppure, quell’idea un po’ aveva fatto breccia nella mia testa, ma non osai dirlo a voce alta a H.
Ricevuto il preventivo, contattai un altro laboratorio, scoprendo che la prestazione sarebbe costata considerevolmente meno. Perciò, prenotai per il giorno dopo. Mentre mi bucava il braccio, l’infermiera mi chiese con cosa avrei fatto colazione. Sarà stato forse il quarto prelievo del sangue della mia vita, a 26 anni, e Dio solo sa quanto odi la vista degli aghi prima delle punture e la sensazione quando ti entra nella pelle e poi rimane sotto. Parlare di brioche in quel momento non ha aiutato molto, tuttavia era stata abbastanza brava da non farmi soffrire tanto.
Lavorai tutta la mattina e un po’ nel pomeriggio. Erano quasi le cinque e mi sentivo stanca, non avevo voglia di continuare. H. stava facendo un meeting nell’altra stanza. Andai in bagno, con il telefono in mano, aprii Instagram o Duolingo, per distrarmi da quel malessere, decidendo che sarei andata a distendermi un po’ a letto, mi sentivo pure un po’ di febbre. Tirai lo sciacquone e vidi che mi stava chiamando un numero locale. Normalmente non rispondo a nessuna chiamata sconosciuta, perché mi innervosisco parlando con i truffatori e nessuno può avere altri motivi per cercarmi. Mi dico sempre che, se è una cosa seria, richiameranno. Quella volta, però, sentii che era un numero affidabile.
“Sono la responsabile del laboratorio. L’avrei chiamata lunedì, visto che domani è festa. Ma ci sono alcuni valori molto alti e le consiglio di andare al pronto soccorso il prima possibile per capire a cosa sono dovuti. Per quale motivo il dottore aveva richiesto queste analisi?”.
Pronto soccorso. Appena possibile. Terminata la conversazione, tornai nello studio, spensi il pc. Feci cenno a H. di dovergli parlare. Gli riferii cos’era successo. Mi disse che avrebbe terminato a breve il suo meeting. Andai in camera, iniziai a vestirmi per uscire. Bianchieria pulita. Una rivista e il kindle in borsa, perché al pronto soccorso, si sa, sai quando entri e non sai quanto ci puoi stare (la mia ultima esperienza diretta, comunque, risaliva a quando avevo sbattuto i denti correndo contro una panchina dell’asilo a cinque anni). Il caricatore del telefono, per lo stesso motivo. Una copia stampata dei referti delle analisi del laboratorio. Prendemmo l’autobus e andammo all’ospedale più vicino.
Durante il triage, diedi il referto all’infermiera e le descrissi cosa mi era successo da maggio. Ripeté due o tre volte “Terapia completamente sbagliata”. Mi fece “accomodare” in una stanzetta, dopo avermi messo un braccialetto identificativo e avermi dato un numero di chiamata. Attesi per oltre un’ora. Non volevo allarmare nessuno, chiamai mia madre con la voce più ferma del mondo dicendole che ero al pronto soccorso e che dovevano farmi degli esami.
Infine, entrai in un ambulatorio. Ripetei nuovamente alla dottoressa l’accaduto, due infermieri mi fecero dei prelivei del sangue, un’ecocardio, un’elettrocardiogramma, mi controllarono dalla testa ai piedi, notando gli ematomi rotondi che avevo sulle gambe. H. qualche giorno prima mi aveva presa in giro, dicendo che sbatto sempre dappertutto. Non aveva tutti i torti, ma io non ricordavo di aver preso tutti quei colpi a diverse altezze. Il medico intanto aveva consultato uno specialista di un reparto. Non capivo cosa stava succedendo. Al termine del controllo, la dottoressa si avvicinò a me, distesa sul lettino e mi disse, testuali parole: “Dobbiamo tenerti qui dentro almeno fino a lunedì, perché c’è un esame che non possiamo fare prima della prossima settimana, tra la festività e il weekend. Ascolta. Molto probabilmente hai un tipo di leucemia. Ma stai tranquilla, adesso queste cose si curano, non siamo all’epoca di mia nonna” aggiunse, per sdrammatizzare. Le chiesi se c’era una minima possibilità che fosse qualcos’altro. Disse “è molto improbabile”.
Mi consentì di uscire per un po’ dagli ambulatori per avvisare e stare un po’ con H., comunque non mi avrebbero ricoverata subito, mi avrebbero dovuta richiamare dentro. Dovevo solo evitare il più possibile di stare vicino ad altre persone in sala di attesa.
Oggi, non so come ho fatto a mantenere il sangue freddo ripetendo a H. quanto mi era stato detto. A decidere di tenerlo nascosto a tutti gli altri, a parte dire che sarei dovuta rimanere in ospedale per alcuni giorni.
Era tutto assurdo. Una settimana prima avevamo prenotato i voli e l’alloggio per fare un viaggio a metà giugno; adesso eravamo lì senza comprendere appieno cosa avrebbe significato quella notizia per la nostra vita. Non che qualcuno avrebbe potuto prepararci per la scalata che ci aspettava.
C’è il prima e il dopo. Il prima di quella chiamata e il dopo quella chiamata. La vita “normale” fino alle 17:20 del 1° giugno 2023 e quella che è pur sempre la mia vita, ha pur sempre la sua dignità, ma è una vita trascorsa sul filo del rasoio. Posso dividere in fasi anche questo periodo, perché è vero che gli “incidenti di percorso” lo hanno segnato. Tuttavia, non è questo il punto. Il punto è che, in una prospettiva di lungo periodo, ogni giorno questa vita si fa più precaria. Ogni giorno la speranza si riduce un minimo. Ho potuto godere ben poco di momenti “normali”, specialmente da ottobre in poi. Ho, più che altro, dovuto imparare a convivere con certi mostri di pensieri che non augurerei a nessuno di incontrare.
E a distanza di tutti questi mesi da quel mese di giugno, l’immagine del prima e del dopo è ancora più nitida. Se, per alcuni mesi, continuavo a non realizzare che tutto questo fosse capitato proprio a me, come se fosse solo un brutto incubo da cui cercavo di svegliarmi (proprio nel letto dell’ospedale continuavo a interrogarmi, ché magari chiudendo e riaprendo gli occhi mi sarei risvegliata a T. nella mia camera dalle pareti grigie), ultimamente vedo la me di prima come un’altra persona. Un’altra persona che era dentro il mio corpo, aveva altre abitudini, pensava e si preoccupava di certe cose, tutto sommato nell’ordinario. C’è qualcosa di prezioso nel potersi lamentare dei problemi banali a cui ti mette di fronte la vita. Un privilegio che non sai di avere.
La me di adesso conosce la me di prima e cerca di trarre il meglio da ciò che ha imparato quella in passato. Per il resto, si è arrangiata ad affrontare tutte le novità. Fa quel che può per mantenere in vita quel corpo, sia mai che quella di prima venga a reclamarlo, un giorno.
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Ciao Ele…ho letto tutto d’un fiato con il cuore in mano!Mi chiedevo spesso come e qjuando tutto era iniziato!Grazie di avercelo raccontato…puo’ essere utile x tutti!Ti penso tanto te e i ai tuoi familiari che stanno vivendo tutto questo!Grazie e sii sempre forte e coraggiosa..con tanto affetto Laura♥️
Cara Eleonora, o forse dovrei chiamarti Ele, perché anche se ci siamo viste una sola volta, ho sentito parlare spesso di te, e sempre con questo nome. Quindi ricomincio: cara Ele, permesso. Entro in punta di piedi nel tuo mondo, che hai scelto di aprire ai tuoi cari e anche a chi, come me, ti chiama "cara" senza quasi conoscerti.
Grazie, per avermi fatto capire una volta in più che a volte non serve parlare a tutti i costi, e che nel silenzio si comunica persino di più, specie quando si tratta di esprimere vicinanza a qualcuno. Grazie per avermi messo fuori combattimento, me e tutte le cose che avrei voluto dirti. Grazie per ciò che condividi, forse non immagini quanto sia prezioso. Scusa, se anche le parole che ho usato ti sembrano troppe, o fuori luogo; mi auguro solo non ti sembrino vuote. Permesso, grazie, scusa. Papa Francesco suggerisce di usare queste tre parole per accostarsi all'altro con il rispetto che merita. E io le prendo in prestito per accostarmi a te. Ci conosciamo a malapena, ma ti porto nel cuore e nella preghiera, ogni giorno.