Avere un'ultima possibilità
Sapere quello che il medico sta per dire senza che abbia ancora detto nulla
Ho imparato a leggere i medici attraverso i loro occhi sopra le mascherine e le loro voci. Ho imparato a leggere la loro postura quando stanno per dirti qualcosa che non vorrebbero doverti dire.
Ho imparato che quando la mattina in ambulatorio ti dicono che ti chiameranno nel pomeriggio per darti indicazioni su una terapia e poi non si fanno vivi è perché c’è qualcosa che non va.
Ho imparato che le brutte notizie in ospedale te le dicono di mattina, di solito. Se sei a casa, ti convocano di pomeriggio.
Abbiamo un piano B?
C’è poco da girarci intorno. Nel mio caso hanno sfruttato il piano B, il piano C e il piano D. Il piano E è subordinato alla riuscita del piano D, che ha delle probabilità talmente basse da non poter parlarne in termini numerici concreti.
Però è quello che ti viene spontaneo da chiedere al medico: abbiamo in piano B, adesso che è successo questo?
Più volte in questi mesi ho passato giorni di agonia, nell’attesa di sapere se il piano B del momento avesse funzionato. E a chiedermi se ci fosse stata un’altra soluzione nel caso in cui il responso fosse stato negativo.
Più volte ho dovuto confrontarmi concretamente con la possibilità concreta, vicina, reale che non ci fosse più niente da fare. Anche oggi lo sto facendo, mentre scrivo queste righe che saranno pubblicate quando forse avrò già il mio responso.
Lo spartiacque
Quando si è in salute, si pensa al futuro in termini di anni, decenni. Quando sei giovane, ti chiederai se farai la fine di quell’anziano lì seduto alla fermata dell’autobus con una borsa della spesa, solo e risucchiato nella routine che lo tiene a galla. Non ti viene in mente che forse potresti non arrivarci nemmeno alla sua età.
Certo, se hai un minimo di sale in zucca e ogni tanto apri un canale d’informazione, ti rendi conto che la vita è imprevedibile e che potresti morire in un incidente stradale apparentemente evitabile. La notizia ti colpisce, poi la lasci andare. “Questo succede agli altri”.
Senti la storia di una persona, conoscente di qualcuno che conosci, che ha avuto un tumore o un’altra malattia grave e pensi “Caspita.” “Questo succede agli altri, io sto bene”.
Conosci persone che hanno problemi di salute più o meno seri, eppure vivono una vita abbastanza normale. In fondo, egoisticamente, sei felice di stare bene.
Tuo nonno si ammala di demenza senile o ha problemi di cuore, ma è tuo nonno, è anziano, sono problemi che tipicamente affliggono quella fascia d’età.
Un giorno ti svegli e c’è qualcosa che non va nel tuo corpo, non sapresti dire cosa. Può essere soltanto un altro strano sintomo di passaggio per cui non vuoi nemmeno chiamare il medico e sprecare il tuo tempo.
Un giorno ti svegli, hai un tumore e non pensi più ai problemi personali, lavorativi o di salute che potresti avere tra dieci o trent’anni. Ti chiedi se ci sarai tra due settimane, un mese, sei mesi. Ti chiedi se valga la pena comprare un paio di pantaloni nuovi. Ti chiedi se abbia senso iniziare una nuova agenda per l’anno nuovo. Sì, adesso sei vivo, non è ancora tutto perduto. La speranza è l’ultima a morire, dicono.
Quando vivi con una spada di Damocle sulla testa, in attesa del prossimo esame di controllo, capisci che per non impazzire ti conviene cercare di arrivare solo al giorno dopo, non pensare neanche alla prossima settimana.
Una parte di te si inganna, non smette di fare progetti. Non smette di pensare a cosa vuoi fare quando sarai guarito o almeno senza altre terapie a cui sottoporti. È la parte che cerca di tenerti in vita, di non lasciarti scivolare nell’abisso più totale. Nonostante la mia storia sia stata solo un susseguirsi di pessime notizie.
Fino all’ultimo
Sono stata tre volte sull’orlo di fare i conti con l’idea che la mia corsa fosse finita.
La prima volta che mi hanno detto che c’era una recidiva e che mi hanno dato un trattamento alternativo al protocollo, ho chiesto alla dottoressa se ci fosse un piano B nel caso non desse i risultati sperati. Lei, serafica, quasi senza guardarmi, mi rispose “Questo è già il piano B. Se non funziona, non è che ci rimangano tanti piani B. Al massimo forse potremmo reindirizzarti a qualche centro sperimentale”.
Pochi giorni prima di sapere l’esito definitivo di quel trattamento, mi dicevo che quei farmaci mi avevano fatta stare talmente male che avranno pur sortito qualche effetto. E il primo controllo sembrava dare un risultato quasi incoraggiante. Sbagliato. Il piano B è andato in fumo. Mi dissero che mi avrebbero richiamata per discutere sul da farsi.
A quel punto, ero pronta. Ero pronta che mi dicessero sul serio che non c’erano opzioni che potessero dare risultati concreti di lungo periodo. Alla fine, invece, l’équipe di ematologi e trapiantologi ha ritenuto fattibile procedere con una chemio di induzione e poi una di condizionamento al trapianto.
Quanto bisogna voler disperatamente guarire per essere contenti di farsi due cicli di chemio altamente tossici? Ma era l’unica opzione sensata. Per fare altri esperimenti non avevamo tempo. La LMA non dà tempo. Non la mia, di certo.
Ho fatto il trapianto, ho sopportato quello che pensavo sarebbe stato il periodo peggiore in assoluto di tutta questa storia. Sono tornata a casa e due settimane dopo sono stata convocata “a tradimento” dalla trapiantologa per farmi dare la notizia della nuova recidiva.
Di nuovo, anche se è stato solo per la durata del colloquio, ero lì pronta a sentirmi dire che non potevano fare più niente per me. Non che adesso cambi molto, viste le prospettive che mi hanno dato.
Oggi, a tre settimane dall’ultimo controllo del midollo, sono di nuovo qui a chiedermi che ne sarà di me. Ogni volta che un famigliare viene a farmi visita mi chiedo se stiamo passando insieme gli ultimi momenti in cui sto bene (per modo di dire) o se è solo un’altra fase prima di affrontare la prossima salita, ancora più ripida delle precedenti.
La verità è che dico di essere pronta, ma non lo sono e non lo sono mai stata. Cerco di prepararmi mentalmente a sentire pronunciare certe parole. Cerco di indovinare cosa dirà il medico. Non avrà un’aria molto diversa da quella che ha tenuto ogni volta che ha dovuto dire qualcosa del genere, anche se questa volta sarebbe la notizia peggiore di tutte. Cerco di pensare a cosa vorrei fare se mi lasciassero andare a casa e per qualche giorno avessi qualche forza senza problemi fisici strani. Cerco di immaginare, insomma, lo scenario peggiore, nella speranza che faccia meno male se proprio dovesse succedere.
Infatti, ogni volta che sono entrata nell’ambulatorio dell’ematologo o del trapiantologo, fosse per un controllo o un colloquio serio annunciato, l’ho fatto cercando di rimanere il più possibile impassibile. Non vuol dire che non abbia mai versato una lacrima davanti a loro. Ma bisogna mettere un muro, uno scudo, tra sé e le parole che possono arrivare, per sopportare i colpi duri. In fin dei conti, è così che ho affrontato i medici anche il giorno in cui mi hanno diagnosticato la malattia. Questa è l’attitudine che mi porto avanti da nove mesi e mezzo. Questa è quella che terrò fino all’ultimo.
Ciao Eleonora, la tua forza è incredibile e ho soggezione a scriverti, ma ti scrivo lo stesso. Quello che ti voglio dire è che le tue cronache sono dure ma la loro energia e limpidezza sono un modello di comportamento per me. Sei una persona esemplare nella tua lotta, i tuoi scritti consolidano la mia opinione che la forza delle donne come te è irraggiungibile . Grazie. Paolo
Prima che succedesse tutto questo, ho sempre pensato che tu abbia una forza incredibile, come ha detto Paolo sopra.
Conosci la mia storia, e cosa mi è successo. Ho visto la mia vita diventare più fragile e cmq quello che combatti tu ogni giorno non posso immaginarlo e non so se io potrei combattere come lo fai tu!
Grazie ancora per i tuoi articoli. Pensiamo che siamo invincibili finché ci ricordano che in realtà non controlliamo niente e, a volte, ce lo dimentichiamo anche se lo sappiamo bene.