Alimentarsi è diverso da mangiare
Sono un'italiana semplice: penso al cibo metà della mia giornata
Il cibo è controverso: c’è chi ci costruisce una professione intorno e chi rischia la vita per suo eccesso o difetto. Nel mezzo, c’è la maggioranza delle persone, che riesce a dargli più o meno il giusto peso nella gerarchia dei bisogni da soddisfare per sopravvivere.
Mangiare, in fin dei conti, a meno che non vivi sotto la soglia di povertà o soffri di disturbi del comportamento alimentare (DCA), è un atto scontato. Tutti fanno almeno due pasti al giorno.
Ovviamente, ne sto scrivendo perché per me non è più così scontato.
Tra luglio 2021 e maggio 2023 ero riuscita a costruire il rapporto migliore (non perfetto) che abbia mai avuto con il cibo e con l’immagine che avevo di me stessa fino a quel momento in tutta la mia vita. In sintesi, mangiavo quello che volevo, quanto volevo, senza dannarmi per alimentarmi in modo “sano” secondo criteri strampalati inventati da qualcuno, senza diete e, al tempo stesso, oserei dire, senza eccessi di prodotti “malsani” (fast food, roba preconfezionata, alcol, e quant’altro, ma non sono una nutrizionista, affidatevi alle linee guida del CREA per sapere come mangiare in modo equilibrato). Mi sentivo bene fisicamente e soprattutto mentalmente, tanto mi bastava.
Da quando ho iniziato a stare male, senza avere la minima idea di cosa stesse succedendo veramente, ho iniziato anche a perdere interesse per il cibo. Lasciavo che H. cucinasse per entrambi o mi trascinavo ai fornelli di malavoglia o cedevo alle sirene del cibo da asporto consegnato a casa.
Dopodiché, l’esperienza stessa della malattia ha messo in crisi tutto, per l’ennesima volta. Forse non irrimediabilmente; sicuramente, in modo profondo.
Inappetenza
Il sintomo forse peggiore dato dalla prima chemioterapia che ho fatto è stato l’inappetenza. Un sintomo che si è presentato e ripresentato anche tutte le volte successive.
Perché l’inappetenza è così brutta? Cosa significa?
Non è semplicemente il non avere fame, il sentirsi già sazi. È il vedere il cibo o anche solo lontanamente concepirlo nella mente e provare totale indifferenza, se non addirittura disgusto. È aprire il coperchio del piatto sul vassoio che ti portano in stanza, sentire un odore che in condizioni normali troveresti magari non allettante ma passabile, e sentire la nausea che ti sale, al punto che preferisci proprio stare lontano dai piatti e, se puoi, non vederli.
Inizia dopo un paio di giorni dall’inizio del ciclo di chemio e ne dura almeno tre, se ti va bene.
Durante questo periodo, puoi tentare di mangiare, nulla te lo vieta. Anzi, una parte del tuo cervello ti sollecita e ti dice: “Dai! Sacco vuoto non sta in piedi! Almeno le fette biscottate con la marmellata!”. A volte ce la fai. Controvoglia, ma riesci ad assecondare quella spinta. Altre, la repulsione domina, despota e tiranna.
Io ci soffro. Psicologicamente, soffro nel sentire che il mio stomaco e il mio cervello sono totalmente indifferenti al richiamo di un fattore vitale. E non è solo una questione di “cosa” ho davanti agli occhi, non è colpa del cibo dell’ospedale più che di quello di un’altra provenienza.
Il cervello, semplicemente, vede questa massa e la mette sullo stesso livello di edibilità e attraenza nutrizionale di un sasso o di una scarpa.
Il cibo negli ospedali
In principio era lo spirito di adattamento. E lo spirito di adattamento era dentro di me. Oggi, il mio spirito di adattamento è diventato rifiuto totale, e capirete perché.
Ho avuto l’onore di essere ricoverata in tre ospedali e in due Regioni diverse, quindi di poter addirittura confrontare la qualità di quanto viene servito ai pazienti in ciascuno di essi. Quanti possono vantare una tale fortuna? Potrei quasi sognare di scrivere una guida Michelin degli ospedali italiani, un giorno.
I pazienti non sono considerati persone
A giudicare dalla qualità del cibo, preparato dalle cucine o confezionato che sia, questa è l’unica conclusione che si può trarre su ciò che pensano le aziende appaltatrici delle ristorazioni ospedaliere. Cioè, non c’è un’altra spiegazione plausibile e logica.
Nel primo ospedale, a T., in effetti, pensavo che il cibo potesse essere migliorato e che certe cose proprio non corrispondevano alla descrizione che mi veniva data quando ordinavo i pasti per il giorno successivo. Tutto sommato, però, mi facevo andar bene la maggior parte di quello che arrivava. Avevo imparato ad evitare la carne. Gli alimenti confezionati erano di solito di marche buone, anche se a volte non comuni nei supermercati.
Il mio declino con l’accettazione del cibo è iniziato a luglio, a M. Prima cercavo di provare un po’ di tutto, evitando i preconcetti, dando loro una possibilità di dimostrarmi che qualcosa di accettabile c’era. Dopo otto mesi, direi che hanno totalmente fallito.
Avete presente quel programma ormai un po’ datato in cui lo chef Gordon Ramsey girava i ristoranti americani in difficoltà per aiutarli a risollevare gli affari? Si chiamava Cucine da incubo (la brutta copia di Canavacciuolo non mi interessa, parliamo degli originali). Ecco, immagino che giù nei sotterranei degli ospedali (quelli dove sono stata io, ma non saranno casi isolati in Italia), la situazione sia più o meno quella. Non da mandargli i NAS (forse, e lo spero), ma piena di gente che non ha mai visto una pentola in vita sua e alimenti di dubbia origine, quello sì.
Nella logica tutta italiana dell’amministrazione pubblica, è ovvio che le gare di appalto le vince chi fa il prezzo migliore. E il prezzo migliore lo paga il paziente, alla fine. Con cibo che farebbe inorridire chiunque.
Infatti, facciamo un gioco. Che cos’è questo?
E questi?
Ultimo, promesso:
Difficile da indovinare? Appunto.
Adesso, non solo l’aspetto è quello che si può aprezzare dalle foto (avrei altri esempi, ma ve li risparmio). Fate uno sforzo di immaginazione: questo cibo ha più o meno tutto lo stesso sapore, lo stesso odore. Una volta arriva completamente senza sale, una volta talmente salato che il Mar Morto morirebbe di vergogna, un giorno la pasta è scotta, un giorno fredda, un giorno dura. Il risotto sembra un riso in brodo, tralasciando che usano il riso da contorno anziché quello da risotto. La pasta all’olio ha talmente tanto olio che ti ci puoi specchiare dentro (e non olio di oliva, olio inspaore, trasparente). Se dichiarano un ingrediente nel condimento della pasta, per esempio, mettiamo le zucchine, le devi cercare con la lente di ingrandimento. Le polpette di carne sono crude e il polpettone e le polpette al sugo sono fatte con gli scarti di Dio solo sa cosa. Minestrina con pastina e brodo? Buona fortuna se riesci a capire che sapore ha, a parte di grasso color arancione. Le patate lesse, per un inspiegabile miracolo, erano servite rigorosamente crude al centro fino a gennaio 2024. Lo stracchino (confezionato) mi è arrivato più volte inacidito seppur lontano dalla data di scadenza, eppure non dovrebbe essere così difficile conservarlo. La mozzarella, di una nota marca ma di qualità “professionale”, sembra gomma, sia nella consistenza che nel sapore. A una delle mie compagne di stanza, una volta è arrivato del prosciuttto cotto non confezionato (prosciutto, formaggi stagionati e altri affettati non vengono in confezione singola per chi non ha i globuli bianchi bassi, da prassi di reparto) che aveva un odore… discutibile.
Per colazione, puoi scegliere solo tra pane o fette biscottate, con il miele o la marmellata. Ma se sei in aplasia (i globuli bianchi stanno a zero), non puoi prendere il pane, perché non lo servono confezionato singolarmente. Da bere, puoi scegliere tra un tè che sa di brodo, un latte che sembra acqua bianca, caffè latte fatto con il caffè d’orzo, o un delizioso caffè d’orzo amaro e al tempo stesso incosistente come solo un vero barista con anni di esperienza riesce a prepararlo.
Ma qualcuno si lamenterà.
Sì, tutti si lamentano. Tutti quelli che hanno delle papille gustative, perlomeno. Le OSS e le infermiere segnalano continuamente alla cucina i problemi più lampanti riscontrati da più pazienti in un pasto. Io stessa ho segnalato all’URP della mia ASL il problema con la cottura delle carni e delle polpette. Non è cambiato niente. Non cambierà niente, a meno che qualcuno ci resti secco (sia mai).
Per onor del vero, ho passato tre giorni anche in un ospedale a P., dove la minestrina, per esempio, veniva servita con brodo fatto di dado vegetale che effettivamente sapeva di dado vegetale in una scodella e la pastina veniva servita a parte in un barattolino di plastica, da aggiungere alla scodella. La verdura sembrava avere il sapore che avrebbe dovuto avere. La pasta era allo stesso standard degli altri due posti. Almeno per colazione c’era più scelta.
Ai dottori interessa qualcosa?
No. Per i dottori, finché mangi anche due pacchetti di grissini al giorno e uno yogurt, va bene. In ematologia a M., ti concedono anche di farti portare il cibo da casa, se lo desideri, purché sia appena preparato e messo in contenitori monoporzione. O qualsiasi altro cibo confezionato monoporzione compatibile con il tuo stato di salute in quel momento. A T., questo per me era inimmaginabile, erano severissimi sul fatto che tutto dovesse essere monoporzione, confezionato, non alterato, non toccato da niente e da nessuno.
Quindi, perché dovrebbero spendersi per far sì che tu possa scegliere dal menù piatti che effettivamente ti invogliano a mangiare o che puoi mangiare? Eh, sì, perché i pazienti ematologici devono seguire la cosiddetta dieta a bassa carica microbiotica. Che significa, sostanzialmente, che non puoi mangiare nulla di crudo (il prosciutto crudo è crudo, per chi non lo sapesse, tipo una signora che è stata in stanza con me) e devi evitare lo street food (è da maggio 2023 che non mangio un kebab, questo fatto da solo costituisce il 30% del mio trauma). Se tu non riesci, non vuoi, ti rifiuti di mangiare le prelibatezze offerte dall’ospedale, è un problema tuo.
Non c’è attenzione a elbaorare un menù apposito per un reparto speciale, con esigenze speciali. I pazienti ematologici rimangono ricoverati per settimane, non giorni. Se stessi dentro due giorni, ti accontenteresti, perché tanto poi torni a casa e torni alla tua vita di prima, anche se fai la fame per poco o mangi controvoglia, puoi sopportarlo. Se stai dentro per quella che a volte ti sembra semplicemente un’eternità e ogni due giorni ti vengono proposti i soliti piatti e sai cosa ti aspetta al varco e devi iniziare a depennare tutto quello che già sai che non ti piace… la sfida mentale è equiparabile a una scalata dell’Everest.
In casi estremi, come per me qualche settimana fa quando ero arrivata a un peso troppo basso, consultano una nutrizionista. La soluzione a cui siamo arrivate io e la nutrizionista con cui ho parlato? Che mi avrebbe fatto includere nella dieta un integratore sostitutivo dei pasti per aumentare l’apporto calorico. Aggiungere altri piatti dal menù sarebbe stato inutile, poiché sarebbe stato limitante (e le opzioni che accetto sono diventate sempre meno). Indubbiamente, la cucina dell’ospedale non può preparare piatti fuori meù solo per certi pazienti. E, soprattutto, le tecniche di cottura e gli ingredienti che usano non possono essere diversi.
Ma forse non senti i sapori per via delle terapie
Falso. Le terapie possono alterare la percezione del gusto e la voglia di mangiare, sì. Ma non tolgono il sapore a ciò che nasce già insipido. Lo affermo con certezza perché sento la differenza tra quando mangio un biscotto al cioccolato o la pasta dell’ospedale. E quando mi è capitato di essere trattata con cicli di chemio in day hospital, mangiavo a casa e non avevo nessun problema con i gusti di per sé.
Salvare il salvabile
Quando riuscivo a mangiare (parlo al passato solo perché proprio mentre scrivo le condizioni sel mio cavo orale sono talmente pessime che devo essere nutrita tramite flebo), mi ero risolta ad attenermi a poche semplici regole:
pasta al pomodoro a pranzo (o gnocchi o lasagne, o altri condimenti se erano proposti);
puré, carote lesse, spinaci o fagiolini come contorno;
evitare la carne a tutti i costi;
accettare certi tipi di pesce che per definizione non possono essere troppo malvagi (leggi: merluzzo);
dare una chance ai formaggi stagionati ed evitare la ricotta come la peste (se l’aveste assaggiata, capireste);
ordinare solo il riso in bianco come primo piatto a cena (il resto delle proposte del giorno sono minestrine, minestre, creme che non puoi distinguere l’una dall’altra).
Dopodiché, ogni tanto aggiungevo dei legumi o del tonno in scatola dal supermercato al riso in bianco, magari con un po’ di olio di oliva. Ovviamente, l’olio EVO devo farmelo portare da fuori, peché all’ospedale di M. non hanno il budget per darti anche dei condimenti monouso. È già tanto se ti portano una bottiglietta di acqua da mezzo litro a pranzo e a cena (mi è stato riferito che fino a poco più di un anno fa pure questo era un miraggio).
E adesso?
Adesso, dopo un totale complessivo di circa 170 giorni di ricovero in nove mesi, non riesco più a tollerare la vista dei coperchi rossi sui piatti nei vassoi che mi portano in camera. L’associazione tra il disgusto, l’aspettativa della vista, dell’olfatto e del sapore sono talmente forti che faccio fatica anche solo a sedermi davanti al vassoio e aprire per vedere cosa c’è sotto. Sono arrivata al compromesso con i dottori che i miei famigliari possono portarmi da casa quello di cui ho voglia (di nuovo, compatibilmente con le mesiure igieniche e quanto posso mangiare nella mia condizione attuale). E con i miei sono arrivata al compromesso di sforzarmi di consumare quello che posso almeno una volta al giorno, per non farli impazzire a portarmi su cibo a ogni pasto e ogni giorno. Non sono nemmeno pretenziosa, pure la pasta al pomodoro di casa è cento volte meglio di quella qui.
Non per vantarmi, però devo dire che ho avuto persone in stanza con me che sono state molto più schizzinose già dal secondo ricovero (per il genere che mangiavano ogni giorno solo pollo e puré, per dirne una). Pertanto, iniziare a rifiutare il cibo dell’ospedale dopo nove mesi mi sembra un buon traguardo. Ragionevole.
Mi fermo qui per questa volta, sebbene avrei altro da aggiungere. Forse tratterò il tema sotto altri aspetti in futuro. Vi lascio con le foto dei miei pasti là sopra, augurandomi che non vi perseguitino nel sonno.
Non mangiare kebab è una vera tragedia! Cmq io sono con te, non mangio i kebab da quando ho lasciato l'Italia 🥲
Ed è vero! Se vuoi aggiungere alla tua ricerca: Il cibo in ospedale a San Petersburgo non è buonissimo diciamo.